10/06/15

Libera in prigione

Libera in prigione

Il fondo del pozzo per me iniziò quando venni arrestata, soltanto dopo quindici giorni ricevetti la visita dei miei figli, e che, per coincidenza, fu nel giorno delle mamme. In quel periodo, uno aveva sei anni e l’altra dodici. Mia figlia arrivò, mi diede un abbraccio e disse: “Felice giorno della mamma”. Mi diede un libro e terminò dicendomi: “Mamma, leggi. Chi me lo ha dato è stato un gruppo di collaboratrici che sono là fuori, e tu sai che è l’unica cosa che può entrare qui, non posso portarti regali”.

In quel momento i miei occhi si sono riempiti di lacrime, e pensai: “Non riuscirò a sopportare queste visite, in questa prigione, lontano dai miei figli”. E subito iniziai a pensare a come avrei potuto uccidermi, in modo che terminassero le visite.

Continuai normalmente con la visita e con la sofferenza di vedere i miei figli costretti a passare da quel luogo di gemito e dolore. Questo mi dava più coraggio perché, così una volta che loro se ne sarebbero andate, io mi sarei potuta uccidere. Il termine dell’orario di visita giunse molto più veloce di quanto potessimo immaginare, fu una vera disperazione. I bambini andarono via piangendo molto ed io venni condotta in cella.

Ed è lì che mi sedetti sulla pietra (letto),
abbassai la testa tra le ginocchia ed ebbi la certezza che la morte sarebbe stata la cosa migliore. Iniziai a pianificare per fare la “teresa” (un tipo di corda), così, nel momento in cui la mia compagna si sarebbe addormentata, io avrei avuto tutto pronto per la forca.

In mezzo alle lenzuola, che mia figlia mi aveva lasciato, c’era il libro. Con molto affetto lo presi e gli diedi un abbraccio come se la stessi abbracciando. Era tutto ciò che avrei voluto in quel momento, e mi ricordai che mia figlia mi chiese di leggere, poiché un giorno il vescovo Macedo era stato arrestato ingiustamente e Dio gli diede la vittoria e l’avrebbe data anche a me, visto che fui arrestato solo per essere la moglie di un criminale, non per aver commesso un crimine.

Queste parole rimasero a martellarmi la mente, inserendo dubbi se avrei dovuto o no uccidermi. Continuai a preparare la forca, ma tutte le volte che guardavo il libro mi ricordavo di mia figlia che aveva detto che valeva la pena leggerlo. Quando terminai tutto, la mia compagna non si era ancora addormentata, così, nel dubbio tra il suicidio e leggere il libro, decisi di leggere.
A quel tempo, mi sorpresi, quando mi resi conto, erano già passate cinque ore da che stavo leggendo, e non avevo più nel mio cuore il desiderio ed il coraggio di uccidermi.

Dopo sei mesi di reclusione, fui giudicata e assolta (provata la mia innocenza), ebbi un incontro con Dio. Oggi sono una delle evangeliste della prigione, ho piacere nel donare libri alle famiglie dei detenuti. Io sono l’Universale.

Silvia Ramos da Silva.

http://blogs.universal.org/bispomacedo/it

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